Le storie che il servizio sociale incontra ed accompagna sono complesse e in continuo movimento, sono dense di vita vera, intessute di complessità e di multidimensionalità che interrogano profondamente sul senso e sul significato di “sostenere la vulnerabilità”.
Ed è sempre un buon tempo, anche dopo molti anni di professione nel servizio di base prima e come responsabile del servizio sociale oggi, quello che spendo ad interrogarmi e ad indagare i significanti e le declinazioni della vulnerabilità. Del resto è una questione non di poco conto, nel lavoro sociale, quella delle definizioni e dei significati.
Provo a partire da un pensiero incontrato recentemente in un percorso formativo, della filosofa statunitense Judith Butler: siamo vulnerabili in relazione alla struttura sociale dalla quale dipendiamo pertanto, quando la struttura sociale viene meno, si è esposti ad una condizione di vulnerabilità. Essere vulnerabili quindi non è uno status ma è sempre “in relazione ad una situazione” in quanto l’esperienza della vulnerabilità è determinata dalla mancanza di qualcosa su cui facciamo affidamento ed è una condizione a cui siamo tutti esposti, di cui tutti abbiamo fatto e facciamo esperienza.
Questa definizione mi fa “sentire a casa” come professionista e come persona, perché avvicina umanamente e indica dove mettere lo sguardo: su quel “qualcosa su cui facciamo affidamento” e che è necessario per vivere una vita degna. Si tratta di mettere a fuoco non tanto e non solo la condizione di bisogno e/o di carenza nella sua dimensione soggettiva ma di aprire lo sguardo – e quindi le prospettive d’intervento – alle condizioni di contesto che determinano o aggravano la situazione di vulnerabilità.
In tale prospettiva la genitorialità vulnerabile, anche e soprattutto in presenza di carenze nelle capacità di risposta dei bisogni evolutivi dei figli, non è una condizione “endogena ed irreversibile” ma riconducibile a situazioni che possono essere osservate, comprese e sostenute. Come?
“Marco è stato promosso!” Me lo annuncia con il suo miglior sorriso Catia, la collega psicologa con la quale abbiamo condiviso anni di pensieri, progetti, colloqui, PEI, trasferte in comunità, incontri in équipe e/o con i familiari. Esultiamo insieme scambiandoci un lungo sguardo di commossa felicità mentre nella mia mente scorrono frammenti del lungo percorso con Marco e la sua famiglia, dalla scuola dell’infanzia, quando lo abbiamo conosciuto, ed oggi che ha conseguito la maturità all’Istituto alberghiero.
È difficile e controverso promuovere la genitorialità positiva quando la vulnerabilità è rilevante, le criticità molto evidenti, il rischio di caduta alto, gli interventi non risolutivi; quando le storie sono costellate di vicende che allarmano, suscitano paura, impotenza, talvolta rabbia, giudizio o condanna.
Con Marco abbiamo scommesso sulla “genitorialità possibile”, accogliendo la difficile sfida di mettere al centro le sue vulnerabilità, le esigenze di tutela ed i suoi irrinunciabili bisogni di sviluppo, senza mai rinunciare a mantenere vive e a promuovere le “relazioni familiari possibili”, sostenendo la vulnerabilità familiare, anche nelle fasi in cui non è stato possibile e tutelante per Marco vivere in famiglia. Abbiamo sempre teso a costruire con e per Marco e la sua famiglia un progetto partecipato, condiviso con i dirigenti scolastici, gli insegnanti, gli educatori, gli allenatori, riconducendo ogni scelta, ogni risposta all’interno della cornice definita insieme.
Certo, non sempre abbiamo avuto perfette sintonie sulle strade da percorrere, sugli approcci e sugli interventi, talvolta ci siamo sentiti insufficienti rispetto ai bisogni di Marco o frustrati perché avremmo voluto “fare di più e meglio”, tuttavia passo passo abbiamo scritto insieme una storia dove ogni adulto che si è preso cura di Marco ha avuto un ruolo fondamentale per la sua crescita e si è “sentito parte”.
Di questo lungo percorso d’aiuto porto nel cuore, come prezioso bagaglio professionale e personale, le tante condivisioni e riflessioni fatte con e per Marco, l’incontenibile gioia di balzi in avanti insperati, il raggiungimento di obiettivi costruiti passo passo lungo il percorso della micro-progettazione, ma anche gli scontri, le fatiche, le incertezze, il peso della responsabilità di difficili scelte, le cadute, gli errori e le delusioni. E quando ripenso alle tante sfide affrontate lungo la strada ne colgo come siano state opportunità di scoprirmi più ricca ed inclusiva per aver scommesso sul lavoro di squadra e di rete, sulla fiducia nel cambiamento e sulla possibilità di creare a favore della vulnerabilità genitoriale contesti sociali più accoglienti, agevolanti e cooperanti, più saldi sotto il profilo educativo, includendo i familiari e “le funzioni genitoriali possibili” nella “rete di cura”.
Questo intreccio fra i significati della Butler e le storie di genitorialità vulnerabile che il servizio sociale incontra ed accompagna, mi conferma centralità, fiducia e senso del lavoro sociale in area genitoriale, perché se cambia la situazione di contesto, se la genitorialità è vissuta ed esercitata in una “struttura sociale” più solida ed agevolante, di cui il servizio sociale è co-protagonista ed artefice al pari di altri attori sociali, la vulnerabilità genitoriale può essere attraversata e superata o quantomeno arginata e tutta la famiglia può “fare affidamento” su un contesto che permette di vivere, anche nella fragilità, una “vita degna”.
E mentre continuo ad intrecciare i pensieri, colgo ancora una volta l’evidenza che la “buona genitorialità” non dipende unicamente e strettamente, come letture molto riduttive vorrebbero, dalle capacità dei genitori ma anche dalla “struttura sociale”, da quanto quest’ultima è capace di mettere al centro i bambini, i loro bisogni evolutivi, il diritto al rispetto delle peculiarità di ogni singola storia di vita. E mi tornano in mente le parole di Paola Milani, quando ci ricorda che l’uscita dal “circolo dello svantaggio sociale” e l’inclusione nel “circolo del vantaggio sociale” passa e nel contempo crea una società ed un mondo più giusto, orientato al benessere olistico di genitori e figli. A noi professionisti del sociale, alla scuola, a tutte le agenzie educative, per lo sport ed il tempo libero, a chi progetta e realizzale politiche per la famiglia e per i giovani, disegna e realizza i quartieri delle nostre città, ad ogni cittadino, l’onore e la responsabilità di essere costruttori e fautori di “vantaggio sociale” e di futuro.
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Adriana Antognoli
Funzionario P.O. U.O.C. Servizi Professionali
Servizio sociale associato A.T.S.n. 6
Sede di Fano